Fin dalle origini della civiltà moderna l’impulso al cambiamento è andato di pari passo con uno speculare scetticismo sulle reali possibilità di un vero rivoluzionamento della natura umana. Da questo punto di vista i grandi cambiamenti storici appaiono come eventi che, anziché essere progettati e realizzati, accadono agli individui sotto l’impulso di processi impersonali le cui cause sfuggono al controllo di chicchessia, inclusi i principali beneficiari di tali “progressi”, siano essi tecnologici o economici. Da questa ambivalenza scaturisce la problematicità della questione del cambiamento storico, soprattutto quando viene immaginato come un cambiamento per il meglio, dove il “dopo” è allo stesso tempo un passo in avanti e un “upgrade” rispetto al “prima”. È davvero possibile un simile salto di qualità in natura? E come si spiega? Ma se è difficile da immaginare, come possiamo pretenderlo da creature che sono pur sempre un “pezzo” di natura quando la lezione che la storia naturale sembra impartirci è che l’opportunismo ha sempre una marcia in più nella lotta per l’esistenza? La soluzione tipicamente moderna a questo paradossale connubio di ottimismo e pessimismo coniuga creativamente attività e passività. Detto in breve, il processo storico è concepito come uno sviluppo disordinato che dà origine a situazioni di crisi, a biforcazioni, tipping points, in cui gli esseri umani – o almeno alcuni esseri umani (le avanguardie, i tecnici, i leader carismatici) – hanno la possibilità di favorire il cambiamento di cui un’epoca è gravida, assecondando alcune tendenze anziché altre o, nel caso migliore, producendo un’innovazione che faccia pendere la bilancia del cambiamento dal lato costruttivo anziché da quello distruttivo o catastrofico. In questi casi, la sfida si può dire vinta, sebbene solo provvisoriamente. L’equilibrio raggiunto è infatti per sua natura precario e una nuova crisi – e la relativa sfida per le nuove generazioni – è giusto dietro l’angolo e non consente a nessuno di dormire sugli allori. L’ipotesi teorica da cui mi faccio guidare nell'articolo è che ci sia qualcosa di filosoficamente giusto e qualcosa di profondamente sbagliato in questo modo di comprendere il cambiamento storico. In particolare, nel mio contributo provo a indicare la direzione in cui dovrebbe muoversi un’interpretazione del cambiamento storico che riconosca alla ricettività un ruolo non meno importante del controllo nell’assecondare la creatività morale umana.

Il prima e il dopo. Quanto sono realistiche le speranze in un cambiamento radicale della nostra forma di vita?

P. Costa
2020-01-01

Abstract

Fin dalle origini della civiltà moderna l’impulso al cambiamento è andato di pari passo con uno speculare scetticismo sulle reali possibilità di un vero rivoluzionamento della natura umana. Da questo punto di vista i grandi cambiamenti storici appaiono come eventi che, anziché essere progettati e realizzati, accadono agli individui sotto l’impulso di processi impersonali le cui cause sfuggono al controllo di chicchessia, inclusi i principali beneficiari di tali “progressi”, siano essi tecnologici o economici. Da questa ambivalenza scaturisce la problematicità della questione del cambiamento storico, soprattutto quando viene immaginato come un cambiamento per il meglio, dove il “dopo” è allo stesso tempo un passo in avanti e un “upgrade” rispetto al “prima”. È davvero possibile un simile salto di qualità in natura? E come si spiega? Ma se è difficile da immaginare, come possiamo pretenderlo da creature che sono pur sempre un “pezzo” di natura quando la lezione che la storia naturale sembra impartirci è che l’opportunismo ha sempre una marcia in più nella lotta per l’esistenza? La soluzione tipicamente moderna a questo paradossale connubio di ottimismo e pessimismo coniuga creativamente attività e passività. Detto in breve, il processo storico è concepito come uno sviluppo disordinato che dà origine a situazioni di crisi, a biforcazioni, tipping points, in cui gli esseri umani – o almeno alcuni esseri umani (le avanguardie, i tecnici, i leader carismatici) – hanno la possibilità di favorire il cambiamento di cui un’epoca è gravida, assecondando alcune tendenze anziché altre o, nel caso migliore, producendo un’innovazione che faccia pendere la bilancia del cambiamento dal lato costruttivo anziché da quello distruttivo o catastrofico. In questi casi, la sfida si può dire vinta, sebbene solo provvisoriamente. L’equilibrio raggiunto è infatti per sua natura precario e una nuova crisi – e la relativa sfida per le nuove generazioni – è giusto dietro l’angolo e non consente a nessuno di dormire sugli allori. L’ipotesi teorica da cui mi faccio guidare nell'articolo è che ci sia qualcosa di filosoficamente giusto e qualcosa di profondamente sbagliato in questo modo di comprendere il cambiamento storico. In particolare, nel mio contributo provo a indicare la direzione in cui dovrebbe muoversi un’interpretazione del cambiamento storico che riconosca alla ricettività un ruolo non meno importante del controllo nell’assecondare la creatività morale umana.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11582/324186
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